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"NEL SEGNO DELLA RESTITUZIONE"

Nel segno della restituzione. Galleria Ferrari Verona 1982,mostra personale di opere di Giuseppe Botturi.

Là dove la filologia non trova risposta e la certezza vacilla; là dove inizia l'area dell'ignoto e dell'imprevisto, trova il proprio inizio l'immaginazione. Che pretende di non essere arbitraria e chiede il medesimo credito concesso al documentato. L'avventura di Giuseppe Botturi inizia proprio con l'abbandono delle mappe conosciute, con il suo sporgersi sull'ignoto che i buchi della storia riservano. Dove la risposta è assente, inizia la peripezia; quindi, a partire dalle prime sabbie del deserto, dai primi licheni della tundra. Con la certezza temeraria che l'andare avanti potrebbe coincidere col ricalcare i propri passi in cerchio, col segnare sempre le stesse pietre, in vertigine di spirale; con la certezza temeraria che nessuna oasi o capanna potrà accoglierti e permetterti un indugio.
A Botturi non interessano i percorsi segnati, gli incroci segnalati; non importa quanto di certo la storia, l'archeologia possono fornire. Egli volta le spalle alla storia; per niente affascinato dalla filologia, insegue etimologie incerte, magari fantastiche; lo attraggono le mappe illusorie dei terreni dove un tempo, forse, l'uomo è stato e non lo ritrovi più; di lui sono rimaste solo tracce enigmatiche. Il deserto o la collina troppo ricca di segni e segnali misteriosi: ecco dove inizia la peripezia; non mai labirintica, ma concretamente disorientante. Non c'è un centro, non una riconoscibile entrata da cui alla fine uscire. Lo accompagnano non memorie, ma illazioni di memorie; non dati o prove, ma precognizioni e pre-giudizi che valgono il gioco di una partita finale. Ed egli ripete a se stesso antiche fiabe che parlano di sole e di sabbia, di acqua e di terra, di fuoco e di cenere.
Come un viaggio a ritroso compiuto sul tappeto magico che, sappiamo, sfiora sempre il bordo, naviga sempre sul margine del timore mortale. L'Etruria, Populonia, Roselle: i grandi tumuli, la città disabitata, la realtà o l'irrealtà ipogea; sono le mete, le ossessioni, ma anche altrettanti trampolini da cui tuffarsi più a fondo, dentro il pozzo di mille anni di silenzio, dentro l'abisso di dieci secoli che non parlano. Là dove una popolazione può scomparire con tutta la sua storia, là dove il fabbro e l'agricoltore, il sacerdote e l'orefice possono scomparire - succhiati mani ed arnesi dentro l'inghiottitoio che precipita negli intestini di un ventre buio -, proprio là occorre scendere ed avventurarsi, dove i segni occultano la chiave di ogni decifrazione, dove l'enigma respinge la presunzione dell'interprete ed accoglie soltanto colui che diviene mimo fedele, riproduttore di codici in eco glossolalica. Questo il senso delle scritture intraverbali di Botturi? Il senso delle scacchiere di fonemi? Sono forse imitazioni opache, concrete affidate alla sostanza visiva di ciò che tace, di ciò che è silenzioso nei codici indecifrabili?
Vetulonia, Lucumonia... ed, ora, anche i luoghi di tenui chiarismi; ma, questi, perlustranti dentro le viscere. Orizzonti scomparsi dove si ritrova anche la calma cui aspirava anche Nivasio Dolcemare, cui chiamava anche Maria, la compagna. Là si ottiene non la dimenticanza della vita, ma la compiutezza di un'esperienza dentro una morte che non porta al nulla, all'insipienza, ma, anzi, al suo contrario: alla consapevolezza piena, colma proprio grazie alla lontananza ottenuta rispetto alla vita.
Dall'ipogeo, dal tumulo ri-guardare alla vita. Quello di Botturi è da leggere, dunque, come un prolungato esercizio di morte; all'insegna della penosità, dell'indugio affettuoso sui segni, sui relitti, sulle tracce di una dimensione altra rispetto all'esistere, a questo esistere storico. Le città sono necessariamente immaginarie, anche quando si chiamino Verona, Montagnana, Mantova o, anche, Cerveteri. Nella loro mitografia hanno centri di pulsione, tòpoi dove il mito si accumula, luoghi attrattivi per leggenda, per favola ed arbitrio etimologico. Incroci, punti di coagulo, ponti, archi e teatri; cripte e percorsi rimossi, desueti, dimenticati. Le città sono i luoghi da fantasmare, i luoghi della discesa, lo spazio magico da recingere. Ad affascinare è il loro tesoro nascosto, la loro topografia criptica. Nel loro fondo stanno le sorelle, i fratelli ancora irretiti dalle fiabe; come quella di Bianca di Monate, morta per acqua, col suo lago e la maledizione per abbondanza.
Nel sottosuolo - basta scavare un poco - stanno le urne, i piccoli vasi custodi dei materiali di sempre: l'olio, il burro, il grasso animale ed anche la terra del muro dei disperati, dei suicidi. Nel sottosuolo - basta battere un po' col piede - il vuoto risponde: protetti nelle teche, deposti sul morbido del cotone, della canapa, della seta, della lana e del lino si trovano i segni enigmatici, i segnali magici; tutti compresi in un almanacco di perfette corrispondenze o analogie numerologiche. Le connessioni, le relazioni, le rispondenze tra ciò che sta sopra la crosta e ciò che sotto dorme (?) sono molteplici forse anche descrivibili.
Ciò che importa non è, tuttavia, la dicibilità delle corrispondenze, ma la loro intrinseca forza a convincere o l'indugio o l'avventura sul terreno della pensosità: che è posizione di confronto e, nel contempo, di riflessione, di scommessa ed insieme di avvertimento.
Botturi ha raffinato la capacità di ascoltare, di sondare il sottosuolo: scava, ritrova e, sempre, restituisce. Nel suo racconto c'è la doppia chiave: del rinvenimento e della restituzione, duplice polo di un rito di carattere ctonio che riporta alla vita del tempo il reperto e lo riconsegna, poi, alla immobile atemporalità del suolo profondo. Ricercare memorie quali alimento del viaggio; e, quindi, uno spogliarsi, un liberarsi del carico archeologico per inumazione, per nascondimento. Come se il viandante, insieme alla memoria e ai segni, consegnasse anche se stesso alla terra profonda. Di questi itinerari sulla pelle della terra e, soprattutto, dentro le viscere, le tane del sottosuolo, dentro i buchi della storia, Botturi tiene registro e diario. Paziente, scrupoloso scriba funerario annota, enumera, affida alla cadenza del tempo (5 gennaio, 5 aprile, 5 ottobre) le cose sepolte; costruisce l'inventario delle cose sotto. Il fervore sta tutto nel bloccare il processo di deperimento: una scommessa contro la polvere, contro la putrefazione; una lotta paziente per neutralizzare il nulla. Vetrificare, mummificare, creare dei vuoti d'aria, indurre il molle e il liquido; contraffare l'animale e il vegetale incaricandolo di consistenza minerale. Da qui il destino, meglio, la determinazione di interrare e di murare. Operazione di matrice mentale che non può non essere anche fattuale, concreta. A Botturi interessa, naturalmente, il progetto, la processualità mentale del progetto; ma il mentalismo trova il suo compimento - non ne può fare a meno - nel rito concreto dello scavare e del rinvenire, dell'inumare per restituire. Lo spazio e il tempo di queste operazioni sono sempre definiti, in qualche modo dati, ricavati da una sorta di necessità, di fatalità. È come se non ci si potesse sottrarre a quanto è stato detto da sempre. Catturato da una specie di sogno alchemico-astrologico, l'àugure decifra le connessioni, legge le coniugazioni dei segni, provoca le contaminazioni dei linguaggi possibili. Tavole, almanacchi, i cinque codici del tempo-tempio stabiliscono i cicli, le scansioni secondo cui al silenzio geologico vengono restituiti i segni e gli enigmi.
È stato accolto l'invito, anzi, l'ingiunzione; come, a suo tempo, un altro amante del sottosuolo: "Quella mattina Charun mi svegliò, colui che scorta le anime da questa all'altra vita, e mi disse che bisognava partire. Non pensai neppure a farmi mostrare il mandato di cattura, e senza far motto lo seguii".
In the name of restoration. Traduzione prof. B.L. Di Bin
Imagination takes over where philology finds no answer, where certainty wavers, and where the unknown and the unforeseeable set in. This imaginative work rejects the notion of arbitrariness and expects the same credit given to documented evidence. Giuseppe Botturi's adventure starts off by ignoring well known paths and delves into the unknown, which historians have not yet explored. When an answer is unobtainable, adventure sets in, which extends from the early desert sands to the tundra lichens. He does this knowing full well that is undertaking may lead nowhere, that he may go round in circles, that he may end up in a hopeless spiral. He starts off with the clear notion that he may not find an oasis or a shelter where he may find restoration.
Botturi is not interested in mapped routes, in signposted destination. He is not interested in the findings of history or archaeology. He turns his back on history. Philology holds no fascination for him. He is after undiscovered perhaps imaginary etymologies. What attracts him are illusory maps of territories where once man might have lived, whose traces have been effaced by time, or where he has left only mysterious vestiges.
The desert or hill, rich in mysterious traces, are the places where the adventure starts. This is never labyrinthic but decidedly disconcerting. He is not guided by any recognisable landmarks. He has no memories but just a strong intuitive feeling. He is not supported by data or evidence but simply by a certain precognition or hunch. He reminisces about old fables which tell of sun and sand, water and heart, fire and ashes.
He journeys on the verge of mortal fear as if on a magic carpet. Etruria, Populonia, Roselle: large graves, uninhabited towns, a mixture of hypogean reality and unreality. These are objectives, his obsessions, but also as many spring-boards from which he can dive into the depths of a silent millennium, into a ten-century unknown. He ventures to places where whole communities disappeared with their history, where the blacksmith and farmer, the pries and goldsmith were engulfed with their tools in the dark bowels of the earth. This is where he ventures, where the signs hold the key to their deciphering, where the conceited interpreter finds no answer and only the faithful copier can reproduce language codes. What is the meaning of Botturi's scripts and phonemes? Are just visual reproductions of impenetrable, indecipherable codes?
Vetulonia, Lucumonia... And now soft-coloured places are to be found. But this lie deep down in the bowels of the earth. A vanished world where quiet, which Nivasio Dolcemare and his girl-friend Maria longed for, can perhaps still be experienced. In that dead world one becomes more aware of life rather than less and this is because of the very remoteness from life. From the hypogeum , from the grave one must look back to life. Botturi has produced a lengthy dissertation on a dead world, lingering pensively on signs, relics, traces which have a dimension which is different from this historical existence. The towns are necessarily imaginary even if they are called Verona, Montagnana, Mantova or Cerveteri. In their mythography they have pulsating centres, where myth gathers, which are attractive for their legendary, fabulous, and etymological significance. One can find crossroads, meeting places, bridges, arches and theatres, crypts and dug up ways, which are out of use and abandoned. The towns are places which stir the imagination; they are magical enclosures. What fascinates one are their hidden treasures, their cryptic topography. In their depths are buried brothers and sisters still recounted in fables, such as Bianca di Monate, who was drowned, with the legend about the lake and the curse.
One needs only to dig a little to find the urns, the small pots and jars which contained the usual foods: oil, butter and animal fat. One can also find the debris of the wall which enclosed the madmen and the suicides. In the underground, one needs only to scratch the ground to bring the traces of the past to light. Preserved in caskets or wrapped up in soft cotton, hemp, silk, wool and linen, the mysterious and magical signs are revealed. They are all recorded in a numerological almanac through which their meaning can be worked out. The connections and relations between what lies dormant underground are manifold and perhaps capable of description. However, what is important is not that they should be capable of description, but that they should have a convincing force and that they should be capable of making people think. They provide food for through, they offer us a warning and a challenge, a means of comparison.
Botturi has developed a keen listening sensitivity, a skilled capacity of probing the underground. He digs, finds, and always puts back what he finds. He deals with the dual theme of recovery and restoration. In this dual role, he brings his finds back to life in time and then restores them to the depths of the earth and timelessness. In his imaginary journey into he past, he leaves behind his archaeological finds, buried or concealed. As if he, the wayfarer, sank with his memories and signs into the bowels of the earth. Botturi keeps a record of these routes on the face of the earth but particularly of the caves underground which are so rich in history. As a patient, meticulous funeral scribe he takes notes, enumerates, and dates the things that are buried (5th January, 5th April, 5th October). He builds up a inventory of the thing underground. His endeavour is to arrest the process of decay. It is a challenge to the return to dust and decomposition, a persevering struggle to counteract the return of things to nothingness. Therefore, his task is to vitrify, embalm, create air pockets, to solidify what is soft or liquid, to turn the animal and vegetable into mineral consistency.
Hence is urge rather his determination to bury and immure. This is both a mental and physical process. Botturi is interested in planning, in the mental process that leads to planning. But, the mental process involved inevitably results in the achievement gained through the ritual of excavation to find things and of burial to restore things. The time and space needed for these operation are always limited, more often than not predetermined by a kind of necessity and fatality. Captivated by a kind of alchemical, astrological dream, the augur deciphers the connections, reads the signs to extract meaningful connotations. Tables, almanacs, the five codes of the Temple of Time determine the cycles, the rhythm in which the signs and enigmas are restored to geological silence.
He has accepted the invitation nay the injunction like another lover of the underground in his time: "That morning, Charun woke me up, he who escorts the souls from this life to the beyond, and he told me that it was necessary to leave. I did not even think of asking him to show me his warrant and consentingly followed him".

Di Francesco Bartoli
C'è in Botturi una rinnovata scommessa a favore della combinatoria: una combinatoria beninteso arbitraria, che mentre insegue particolari cadenze numeriche, cerca fonti e figurae nei paesaggi semicancellati del passato e trae spunti dovunque l'archeologia fantastica suggerisca larghi margini di congetturalità. La sua ossessione è la griglia, il rettangolo e il quadrato magico, l'acrostico, grazie ai quali balena il miraggio di una lingua universale,non ancora nata, che sappia coniugare gli elementi dispersi del visibile, stabilire connessioni e incastri.
Raramente il singolo foglio disegnato può vantare una propria autonomia compositiva. Più spesso fa parte di una sequenza, così come gli altri oggetti (le scatole o i cilindri a spirale, i codici e le mappe) costituiscono i paragrafi di un racconto e vivono, nonostante l'estensione, più nel tempo che nello spazio. Si sottraggono, anzi, per quanto è possibile, alla presa fisica dello sguardo, fanno in certo modo della prosa visiva rinunciando alla corposità del segno e all'allettamento materico delle paste colorate.
Già qualche anno fa (e non a caso), quando Botturi dipingeva quadri nella accezione consueta del termine, il fondo della tela restava in parte scoperto o appena velato da una colorazione fluida, quasi impalpabile e senza peso; ed insieme al piano d'appoggio anche le immagini esibivano una presenza umbratile, come se veleggiassero lungo correnti d'aria e potessero cambiare di posto, scorrere sullo schermo del dipinto. Quest'attitudine a spogliare lo spazio si è ora approfondita fino ad accecare quasi del tutto il colore, con la conseguenza di spostare il disegno verso la pratica della scrittura e della ideografia.
Nient'altro che scritture sono infatti gli elementi di questa affabulazione disossata, ridotta ad una trama di fili, sia nel caso dei motivi inchiostrati sulla carta che delle materie naturali, quali fibre, sabbie, oli o pietre, deposti nel letto delle "scatole" o in luoghi pittoricamente neutri e poverissimi. Mediante la sequenza viene ordinato un campo temporale in cui i segni acquistano il valore di lettera o cifra, scandendo la nascita di un alfabeto elementare ed allusivo.
Che cosa indicano? Quale azione promuovono?
Di primo acchito viene da pensare ad una archiviazione topografica di emblemi e di simboli, ad una sorta di collezionismo figurale. Senonché questo archivio non lascia intatti i segni che accoglie, li spreme secondo una chiave cerimoniale e li trasforma. Per di più contamina una mitografia oggettiva, quella del paesaggio supposto archeologico, con una storia personale, cioè con scavi soggettivi e diaristi. La configurazione dei reticoli in forma di nota, l'andare per appunti, il camminare per mappe provvisorie e talora impraticabili introducono qualcosa che richiama la casualità della reverie e della rarefazione del sogno. In tal modo realtà e immaginazione si confondono, incentivando gli sdrucciolamenti nell'uno e nell'altro senso. Quel che resta è una figura fantasma, il desiderio di una lingua, spesso una increspatura di segni che vengono dal niente per andare verso un altro niente. Il Codice del Nulla è probabilmente, fra tante congetture, il meno azzardato.
La griglia serve allora a far cagliare il poco, il quasi-niente, quel possibile che corre da una stazione all'altra. Per attirarlo e dargli un senso. Ostinatamente ancorata al simbolismo del cinque, la progressione denuncia una forte presunzione sintetica, coagulante. Vuol far riposare l'annuncio di un segno e dargli tempo di nascere.
Ecco i riti del sonno. Le pietre e le fibre riposano nei tumuli. Botturi li chiama sepolture, ma dentro non troviamo dei morti. Tant'è vero che, dopo averli interrati, torna ad aprirli. Li mura e li riapre. Li dissemina anche, seguendo certi tempi e durate, nei luoghi di passaggio di una superficie urbana, lungo i camminamenti, vicino alle porte ed agli ingressi, così che la città diventi davvero madre del codice immaginario: metro-poli.
Ne vien fuori una geografia del riposo, incolore, senza timbro avvertibile, poiché anche il bianco, che qui dà il tono dominante, non è ravvivato da pigmenti ed è semplicemente un lenzuolo sul quale giacciono polveri di segni. Il foglio è un arredo accogliente, un letto, misurato sul numero delle dita, simbolo forse dell'uomo e della totalità del sensibile. Temi e grafie, per ora, di un inizio.

Trad. prof. B.L. Di Bin
There is in Botturi a renewed trend towards combinatorial analysis, of course an arbitrary analysis which pursues particular numerical rhythms, is after sources sources and figures partly effaced by time and draws inspiration from an imaginary archaeology based on conjecture. His obsession is the grille, the rectangle and the magic square, the acrostic which hint at a universal language, yet unborn, which can bind the scattered elements of the visible, establish some unity and cohesion.
Rarely does a single drawing show a compositive whole. It is often made up of a sequence like the other objects, the boxes, the spiral cylinders, the codes, the maps, which unfold like paragraphs of a story and live, in spite of their compass, rather in time than in space. Nay, they elude, as far as possible, visual perception; in a way, they give the impression of a kind of visual prose, which is devoid of corporeity and the palpable fascination of coloured paste.
Some time ago, and not fortuitously, when Botturi painted pictures in a conventional way, the background of his paintings was partly bare or just dimmed by a fluid colouring, almost impalpable and weightless; and even the images showed a shady consistency, as if they fleeted in the air and could move within the painting. This tendency to divest space has become more marked to the extent look more like some form of writing or ideographies.
In fact, the elements of these incongruous structures, which are reduced to a weft of threads, both in the case of the themes inked on paper and natural materials such as fibres, sand, oil and stone, which are laid in "boxes" or in pictorially very bare places, are nothing but forms of writing. Through sequence a temporal state is established, in which the signs take on the value of letters and figures, giving birth to a rudimentary and allusive alphabet.
What do they show? Is there a message in them? At first sight, one gets the impression that one is perceiving topographic archives, problems and symbols, a kind of figurative collection. But, these archives change and transform the signs by some kind of magic ritual. They taint the objective mythography, that of the supposedly archaeological landscape, with a personal history which is made up of subjective and recorded excavations. The note-taking and the illusory maps remind one of the casualness of a reverie and the fleeting nature of a dream. Thus reality and imagination blend and alternate. What emerges are phantasmagoric figures, the search for a language, often a collection of signs which arise from nothing and vanish. The Code of Nothingness is probably, among so many conjectures, the more acceptable.
The grille severs to coalesce that scanty or almost inexistent fleeting substance. It serves to attract it and to give it some sense. Firmly based on the symbolic meaning of the number five, progression shows a syntthtizing and cohesive force. It presages the birth of a sign.
Here is the ritual of the dream. The stones and fibres lie in the graves but there are no corpses in them. In fact, after burying them, he exhumes them. He immures them end takes them out again. He then scatters them on his way through a town round doors and entrances so that the town may become the matrix of a mysterious code: metro-polis.
What stands out is a restful, colourless scene, without a perceptible character so much so as white is the dominating colour, which is unenlivened by pigments, but is simply a sheet on which dusty signs are laid. The drawing paper is perhaps a pleasant fitting, a restful scene, a measurable entity, maybe a symbol of man and the wholeness of the sensitive. So far they represent incipient themes and a form of writing.

Opere:
Policasta pernice; Toro; Ebla; 5 - 20X25; 5 - 50X60; 5 - 24X30; Dolcemare; 5 - 30X50; Anatolia; Stonehenge; Drahenloch; Stregone danzante; Prima Italia; Mar morto; Mari; Montagnana; Sep. 1; Sep. 2; Sep. 3; Dal grande tumolo al grande ipogeo; Grandi muri a secco